Masanobu Fukuoka (1913 – 2008) è un uomo che attraversa per intero il secolo della Rivoluzione Verde, un secolo denso di progressi e di contraddizioni per l’umanità. Dalla sua prima formazione di tecnico - era un fitopatologo - attinse le basi conoscitive per avviarsi subito su un cammino critico del tutto personale che sarà quel “filo di paglia” della sua vita di agricoltore e filosofo.
Egli raccoglie a piene mani non solo dall’osservazione, ma soprattutto dal dialogo pieno e profondo che instaura con le dinamiche naturali che sperimenta direttamente. Realizza un contatto diretto con la terra che lo coinvolgerà per ben settanta anni, nel suo podere nel Giappone meridionale.
Dunque, abbiamo a che fare con uno di quei rari filosofi che possono essere guardati più per come hanno vissuto che per quanto hanno detto. La sua opera più significativa e riconosciuta in ambito internazionale è La rivoluzione del filo di paglia, definita come uno dei documenti fondanti, indispensabili per chiunque voglia capire il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura. Qui l’autore sistematizza alcuni principi della sua agricoltura del “non fare”, in cui rivela un pensiero olistico-sistemico che affonda le proprie radici nella tradizione filosofica taoista.
Il concetto del “non fare” va inteso in verità, nel “fare il necessario”, che può essere a sua volta decodificato, in senso estensivo, come un precetto perfettamente ecologista. La sua ricerca si affida a un approccio fondamentalmente intuitivo e induttivo; non si tratta mai di affinare un elenco di tecniche agricole, ma di dare spazio a un nuovo paradigma basato su una visione integrata di tutti gli aspetti della vitalità del campo coltivato.
Oltre alle varie esperienze pratiche, più o meno mutuabili, ciò che conta è
l’atteggiamento mentale di Fukuoka. Egli ci suggerisce che pratiche colturali
vanno sperimentate e applicate, luogo per luogo e caso per caso.
Ciò sottende, per esempio, il recupero di un’attività fondata sulla sintesi
clorofilliana come unico contrasto all’entropia del pianeta. In definitiva,
apprendiamo da noi che un bilancio calorico attivo non può che essere rispettoso
dell’identità climatica del luogo.
Fukuoka è stato un ecologista sistemico, dalla visione complessa e non discriminante, in fondo più praticante che militante. Ha vissuto coerentemente con una ridottissima impronta ecologica e altrettanto ha professato. Il suo messaggio è insistente: il suolo è un patrimonio vivente incredibilmente complesso e misconosciuto di cui aver cura perché ciò che è visibile è retto da ciò che non lo è!
La sua idea innovativa che il suolo sia al centro degli equilibri ambientali è oggi dentro ogni pensiero che si definisca seriamente ecologista. Dal suolo dipendono la qualità della biomassa vegetale, la catena alimentare, la biodiversità, la qualità delle acque superficiali e profonde e la regolazione della CO2.
Questo contadino-filosofo ci propone uno sguardo sul suolo come base della rigenerazione (e autorganizzazione) delle risorse, riconoscendone un proprio, autonomo valore d’esistenza da considerare e difendere dalla voracità dell’agricoltura industriale. Fukuoka è stato l’“impollinatore” di quella nuova visione permaculturale e sinergica che ha contagiato generazioni di nuovi agricoltori consapevoli nel mondo. La sua agricoltura naturale è un’idea concreta, più complessiva della semplice e parziale agricoltura biologica incentrata sulla visione della qualità merceologica del prodotto finale.
Per Fukuoka, l’agricoltura non è solo una questione di produzione di cibo anche se di buona qualità. Egli arriva a sostenere che
il vero scopo dell’agricoltura non è far crescere i raccolti, ma la coltivazione e il perfezionamento degli esseri umani.
In questo senso l’agricoltura naturale non potrà mai essere soggetta a sovvenzioni finanziarie pubbliche, a garanzia della libertà dello spirito umano.
Il suo è un pensiero vasto e per certi versi ineffabile, critico nei confronti dell’approccio scientista dei giorni nostri, a suo dire incapace di conoscere la natura. È fondato sul Mu (nulla), ci sprona a uscire dagli schemi e a seguire la nostra personale ricerca. È l’“umiltà orgogliosa”, cifra più personale del suo vivere, che smitizza l’aura del maestro per farne, come lui stesso ebbe a dire, un “re dell’ozio e del divertimento”.
La sua grandezza sta, in definitiva, nel sentirsi piccolo dentro i giochi incommensurabili della natura. Questo imperituro fondo “biografico” è il testamento morale che a noi converrebbe urgentemente riprendere e non solo in agricoltura!
Scritto da Bruno Vaglio
Agronomo